L’impronta di carbonio del cibo prodotto ma non mangiato, e quindi sprecato ogni anno, viene stimata in 3,3 miliardi di tonnellate di Anidride carbonica, una cifra complessiva che inserisce questo sconcertante dato di emissioni di prodotti che non vengono neanche utilizzati, al terzo posto nella classifica dei maggiori emettitori di CO2 a livello mondiale dopo Cina e Stati Uniti.
I dati, resi noti nel rapporto Food wastage footprint. Impacts on natural resources realizzato dal Dipartimento di gestione ambientale e delle risorse naturali della Fao nel 2013, parlano di un circolo vizioso perché, sottolinea il Wwf, secondo studi recenti il cambiamento climatico potrebbe ridurre la produttività agricola, diminuendo le disponibilità alimentari globali e danneggiando le popolazioni più povere e le famiglie che basano il proprio reddito sulle colture, l’allevamento del bestiame e la pesca.
In occasione della Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, la cui seconda edizione si è celebrata la settimana scorsa, il Wwf sottolinea che «Lo spreco alimentare non è solo un problema di alimenti ma anche di impatti sulla biodiversità e sul clima. Un allarme che il Wwf rilancia nell’anno che vedrà il Vertice mondiale di Parigi come momento clou per gli impegni di riduzione delle emissioni di CO2 al livello globale».
Di chi è la colpa? E secondo il Wwf la responsabilità è divisa a metà tra consumatori e sistema produttivo. Se è vero infatti che «i consumatori spendono in media 316 euro l’anno in cibo che per disattenzione o negligenza viene buttato senza essere consumato», c’è anche «un sistema produttivo che troppo spesso perde cibo e risorse lungo la filiera, fino al 50% delle perdite totali, prima ancora che arrivino in tavola».